Testo e comunicazione


Innis

Su Harold Adam Innis si dice già qualcosa nell’introduzione, indicandolo come iniziatore della Scuola di Toronto.

Da storico dell’economia qual’era, egli «ha legato strettamente il mondo dell’economia, della produzione e riproduzione di valore al mondo della  comunicazione, chiarendo, si spera una volta per tutte, che non esiste valore o mercato senza comunicazione, ha scoperto che la comunicazione non consiste solo nel suo contenuto, ma anche (forse, soprattutto) nel suo veicolo, che può essere concreto (una tavoletta cerata, un quotidiano), ma anche immateriale (una strada, una rotta marittima); che, insomma, la comunicazione è merce universale, è flusso» (M. Sanfilippo e V. Matera, Da Omero ai cyberpunk, Castelvecchi, Roma, 1995).

L’idea-guida che non bisogna dimenticare avvicinandosi allo studio di questo autore è quella secondo cui «la base del rapporto sociale ed economico tra gli uomini è la comunicazione della conoscenza, nelle forme e con gli strumenti dati in ogni epoca storica» (Sanfilippo, Matera, 1995). La capacità di scrittura e di produzione di un testo scritto, in particolare, viene a configurarsi come strumento di potere per affermare un “monopolio del sapere”.

Già in Empire and Communication (1950) e poi in The Bias of Communication (1951), Innis ricostruisce per sommi capi la storia dei mezzi di comunicazione nel mondo occidentale, a partire dalla pietra, passando per l’argilla e il papiro, per arrivare alla pergamena, alla carta e alla stampa, finendo con radio e televisione (agli albori).

Innis suddivide questi media in base alla “tendenza” interna o bias che mostrano: alcuni hanno un’inclinazione per il tempo (papiro, argilla, pietra), altri per lo spazio (carta, pergamena). I mezzi di comunicazione moderni (radio e televisione) hanno determinato una progressiva erosione dell’importanza del tempo come durata storica (ancora presente nella stampa, che poneva attenzione alla durata dell’informazione che veicolava) a vantaggio di un suo appiattirsi sull’istante.

A partire da questa posizione teorica si possono tracciare due percorsi di riflessione, entrambi importanti al fine di predisporsi allo studio di una forma di comunicazione come il testo, nelle sue determinazioni attuali.

Innanzitutto, lo schema di Innis oggi non appare più pedissequamente applicabile. Esso si situa, infatti, nell’ottica di un’analisi dei prodotti, mentre il computer e i media digitali introducono la nuova dimensione ontologica del processo. Questi media utilizzano come base per comunicare un codice di tipo ibrido, situato all’incrocio di spazio e tempo. Le varie forme che un tale tipo di comunicazione assume possono, poi, propendere più per lo spazio (e-mail, chat) o per il tempo (xml [meta-codice che vorrebbe conservare testi attraverso il tempo], dublin core  [metadati], archivi). Ma i termini delle questione vanno rivisitati.

In secondo luogo, il concetto di bias è una chiave di lettura che ha avuto grande successo e che conferma la sua validità anche ai giorni nostri. Ciascuna forma di comunicazione possiede una tendenza, influenza, vincolo o pregiudizio che dir si voglia. Così pure i nuovi media, la testualità digitale che da essi deriva e ciò che li sostanzia. 

Ad esempio, la tavola ASCII (American Standard Code for Information Interchange) a 7 bit, alla base della codifica dei caratteri dell’alfabeto occidentale (128 caratteri tra lettere e simboli). A tutt’oggi è l’unico vero e proprio standard dei linguaggi di mark-up, di programmazione e di tutto il web, ma la sua origine risale agli anni ’60, per rispondere alle esigenze della telescrivente americana utilizzata in quel periodo. Si tratta di un bias rintracciabile nelle moderne tecnologie informatiche: noi comunichiamo in rete con uno standard inventato in una cultura ben definita, in un certo periodo storico, per un determinato strumento (la telescrivente), che adottava una lingua tutta particolare.

Ulteriore esempio è la manilla folder, ovvero la cartellina che si usa comunemente nei file cabinet statunitensi (molto meno in Italia). La parola manilla stava ad indicare originariamente un tipo di tessuto prodotto da un albero di banane delle Filippine (un tempo soggette ad occupazione degli USA). La cartellina e la struttura “ontologica” di un tipico ufficio americano sono utilizzate come metafora per costruire la prima interfaccia grafica di computer della storia, quella Mac (inventata da uno psicologo americano, Donald Normann). E’ poi diventata anche la cartella di Windows, conosciuta ormai in tutto il mondo. La metafora visiva, dunque, si incrocia con una metafora molto più profonda: il desktop del computer sarebbe la scrivania dell’ufficio medio americano, e quindi il computer si presume utilizzato in tale contesto. La struttura socio-economico-antropologica americana si sposa con quella della macchina, la quale esige parimenti partizione e organizzazione.

Anche la scrittura al computer è condizionata dal contesto dell’ufficio (vd. Word, che fa parte di un pacchetto dal nome Office), ed è quindi pensata come un’attività lavorativa, che si svolge all’interno di un determinato ambito, con un certo tipo di prodotti e precise aspettative su quei prodotti. Per esempio, il documento Word serve per produrre una copia cartacea dello stesso, continuando ad immergere l’utente informatico in una fase tipografica del testo. La rete, nonostante la sua potenza innovatrice, non è riuscita a spazzare queste metafore.

Giungere alla consapevolezza di questo processo è solo il passo iniziale per poter utilizzare con piena cognizione gli strumenti – sempre nuovi ma sempre ancorati a ciò che li ha preceduti – che il progresso ci mette a disposizione e creare nuove tipologie testuali.


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