Testo e comunicazione


Arsuaga

Juan Luís Arsuaga, paleo-antropologo spagnolo, nel volume I primi pensatori (Feltrinelli, Milano, 2001) riporta e discute dati e scoperte recenti sull’evoluzione dell’uomo, in particolare il rapporto fra la diffusione dell’Homo sapiens e la scomparsa dei Neandertaliani. Egli concentra la sua attenzione sull’emergere della coscienza e sulla creazione-nascita dei linguaggi simbolici. Ciò che è più interessante per uno studioso di comunicazione sono le affascinanti ipotesi dell’autore su come le capacità cognitive degli ominidi e dei loro successori si leghino alla comparsa di strumenti ‘tecnici’ e soprattutto all’interazione sociale.

Nell’ottica dell’indagine sul “testo”, gli studi di Arsuaga sono utili a delineare le condizioni di possibilità cerebrali e, più in generale, evolutive, per la nascita delle prime forme di oralità e di scrittura nell’umanità.

L’autore cerca, innanzitutto, di evitare il determinismo (in cui ricadono, invece, Innis, McLuhan e tutta la scuola di Toronto). Quando parla della selce e degli utensili degli primi uomini, egli sostiene che l’invenzione di tali strumenti sia stata una conseguenza dell’ampliamento della coscienza, non che siano stati gli strumenti a creare la coscienza.

In questo, lo studioso si distacca anche da tutta la scuola psicologica russa (i cui principali esponenti sono Vygotskij e il suo allievo Lurija), la quale sostiene l’esistenza di una distinzione tra pensiero logico-astratto e pensiero concreto, legato alle funzionalità degli oggetti e al contesto d’uso delle cose. Lurija ha condotto un ormai celebre esperimento, in Uzbekistan, tra il 1931 e il 1932, che sembra comprovare tale ripartizione: in una sala da tè popolare, veniva chiesto ad alcuni contadini di distinguere tre strumenti: pala, sega e ascia. La risposta dei contadini fu che non c’era distinzione, servivano tutti e tre per tagliare. I contadini analfabeti, quindi, utilizzerebbero il linguaggio in modo concreto. Ciò consegue dal fatto che per loro ha un ruolo preminente il rispecchiamento pratico, visivo-concreto della realtà. I settori della popolazione che avevano, invece, acquisito gli strumenti culturali (alfabeto, conoscenze di base, lettura e scrittura) possedevano un sistema di processi psichici differente, poiché in loro prevalgono le forme di rispecchiamento astratto, logico-verbale della realtà. Questa distinzione, però, non può ragionevolmente valere per chi utilizza le nuove tecnologie oggi (diversamente da quanto sostiene, per esempio, Maragliano), perché siamo in una cultura fortemente alfabetizzata, a (quasi) tutti i livelli. Il ruolo degli strumenti va, quindi, valutato caso per caso; non bisogna credere che gli strumenti determinino di per sé un modo di pensare.

Altro punto centrale delle tesi di Arsuaga è la corrispondenza tra l’aumento di materia grigia e l’incremento della complessità sociale umana (riproponendo il pensiero del primatologo Robin Dunbar): la dimensione del cervello è correlata alla “nicchia ecologica” e alla maggiore articolazione e strutturazione del gruppo sociale. Ci sarebbe, dunque, il passaggio dall’homo habilis all’homo sapiens, poi la convivenza misteriosa con i Neanderthal, e noi oggi potremmo attenderci che si formi una sorta di “nicchia” anche nel mondo digitale. Ma occorre fare attenzione nel proporre l’analogia tra l’habitat informatico e la nicchia ecologica e nel considerare i social network come naturale evoluzione di quest’ultima. E’ una tesi affascinante quella secondo la quale l’interazione sociale è un fatto evolutivo, per cui noi tendiamo a crearci sempre nuove nicchie ecologiche, nuovi ambienti di interazione. Ma il fenomeno di comparsa e scomparsa di nicchie ecologiche di cui parlano Dunbar e Arsuaga si è sviluppato in centinaia di migliaia di anni, e non è paragonabile a quello che abbiamo di fronte oggi, relativamente nuovo. Inoltre, la tentazione di spiegare tutto quello che l’evoluzione non riesce pienamente a giustificare ricorrendo al discorso sull’interazione sociale è forte ma, se seguita, conduce ben lontano dal raggiungimento di un dato di fatto. Si può ottenere, al massimo, una efficace argomentazione retorica.

Tratto comune agli antropologi è l’ostinata attenzione a distinguere tra linguaggi e fenomeni linguistici, tra strutture e processi. Un conto è parlare di lingua verbale, un’altro di rappresentazioni simboliche (concetto molto più vasto). Non è detto che ci sia dipendenza fra le due. Leroi-Gourhan (gloria dell’antropologia francese), negli anni ’50, ha pubblicato una serie di studi (Le geste et la parole, 1965/1977) nei quali sostiene che una cosa sia il linguaggio, un’altra le rappresentazioni grafiche degli uomini preistorici, che potrebbero aver avuto significato rituale e che comunque potrebbero essere state qualcosa di alternativo sia all’arte che alla scrittura. Anche un linguista come Vincenzo Valeri (La scrittura. Storia e modelli, Carocci, Roma, 2001)  asserisce che, all’origine, quella forma espressiva che solo dopo millenni diventerà la scrittura «non nasce per riprodurre il codice della lingua, ma per esprimere il pensiero attraverso messaggi visivi», legati al contingente rapporto dell’uomo di allora con il mondo visibile che in quello specifico momento lo circondava, per noi oscuro. La stessa cosa sembra affermare Arsuaga quando cita i graffiti della caverna di Parpallò, a Valencia, che «a noi non dicono alcunché». Ma noi siamo subito inclini a ragionare in termini di linguaggio (saranno narrazione?), come se i graffiti fossero una sorta di “pre-scrittura”. Lo riconosce anche Leroi-Gourhan:

I linguisti che si sono dedicati allo studio dell’origine della scrittura hanno spesso preso in esame la pittografia proiettandovi una mentalità formatasi nella pratica della scrittura.

Invece, si tratta di rappresentazioni che non ci possono più parlare, perché appartengono ad un mondo completamente sconosciuto. Questo stesso discorso si potrebbe condurre a proposito di tutti i linguaggi e di tutte le forme di comunicazione, in ogni epoca. Per esempio, non è detto che tra un secolo o un millennio noi stessi parleremo ancora l’italiano, non è neppure detto che parleremo; non c’è nessuna progressione necessariamente positiva nell’evoluzione dell’uomo, per cui si debba andare verso una maggiore sofisticazione. Prova ne è che il criterio alfabetico, adottato dalla civiltà occidentale come forma più evoluta di scrittura, nell’era dell’informatica tende ad essere sopraffatto da un recupero massiccio del criterio ideo-logografico, come sottolinea ancora Valeri. Per esempio, l’uso di sigle acrofoniche nella comunicazione telematica, come <ICQ> [ai-si:-kju] per dire I seek you [ai-si:k-you], «ti cerco» in inglese, rivela un tentativo di applicazione del principio del rebus – usato nell’antico Egitto – alla tecnica acrofonica per esprimere un’unità significativa rappresentata da un vero e proprio logogramma. Gli emoticons, poi, costituiti da una sequenza di segni di punteggiatura che rappresenta un viso ruotato di 90°, svolgono una funzione para-ideografica, nel senso che determinano il contesto emotivo nel quale va letto il messaggio. Non solo:

il criterio pittografico di tali segni è dimostrato dal loro carattere ancora fortemente motivato e dalla presenza di varianti che rappresentano tratti distintivi dell’emittente; così ad esempio: 8 – ) esprime lo stato d’animo di un emittente… che porta gli occhiali!.

La digitalità che oggi domina il nostro sistema di comunicazioni, anche testuali, sembra, per certi versi, ripercorrere a ritroso il processo che dai «mitogrammi» giunge al «pensiero razionalizzante», ovvero la scrittura, che tende

a una contrazione delle immagini, a una rigorosa linearizzazione dei simboli […]. Questa unificazione del processo espressivo porta con sé la subordinazione del grafismo al linguaggio sonoro […]. Corrisponde inoltre a un impoverimento dei mezzi di espressione irrazionale (Leroi-Gourhan).

La testualità digitale pare dare maggiore importanza alle forme della comunicazione visiva o ai comportamenti di interazione sociale rispetto alla logica alfabetica lineare.


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